Il suo modo di fare dolci racconta di terre da rispettare, radici, emozioni e conquista la Francia: Monia Di Liello cuoc@ nostrom@ di febbraio

Dietro ai dolci di Big Mamma di tutta la Francia oggi c’è lei, Monia Di Liello, cuoc@ nostrom@ di febbraio che ho avuto il piacere e l’onore di intervistare in una video-chiamata quasi a chilometro 0 Lille-Parigi. Sono rimasta molto colpita dal percorso di questa procidana che come me vive in Francia. Vi invito a leggere tutte le tappe che hanno portato Monia a diventare, oggi, chef executive del gruppo più importante di ristoranti italiani dell’attuale panorama francese. 

Uno dei dolci della carta di Big Mamma – Foto by @Monia Di Liello

Cucenellista: Mi puoi parlare un po’ del tuo percorso: come sei arrivata da Procida a Roma e poi da Roma a Parigi e soprattutto come è avvenuta la tua riconversione professionale verso la pasticceria?

Monia: Allora, devo andare a ritroso, partendo proprio dal mio percorso di studi. Ho fatto il liceo linguistico a Procida e poi ho deciso di trasferirmi a Roma per studiare alla LUMSA, scienze della comunicazione, informazione e marketing, la triennale. L’ho quasi terminata, mi mancava solo la tesi di laurea e avevo già iniziato un po’ a lavorare, avevo fatto la barcolana di Trieste con vari uffici stampa, ho lavorato un po’ anche con Sebastiano Cultrera che faceva Procida TV, avevo iniziato a entrare in questi contesti. Poi è nata mia figlia Deva ed è successa una cosa particolare. Avevo deciso di fare scienze della comunicazione perché avevo una grande passione per la scrittura, mi piaceva leggere in generale e scrivere: avevo scelto quell’indirizzo per la correlazione della scrittura giornalistica con quella che coltivavo quotidianamente.

Poi, entrando nel mondo del lavoro, ho capito che non era il mestiere adatto a me perché scrivere per me era un atto liberatorio, la scrittura doveva essere libera, veramente, non doveva essere costretta con nessuna formulazione, in nessuna regola, scrivere per me era come vomitare… sentimenti, pensieri, espressioni. È per questo che ho capito che poi quello non sarebbe stato il mio percorso: volevo che quella passione restasse sacra e pura. Non volevo stancarmi col tempo di scrivere. Questo si collega tanto al fatto che – l’ho detto un sacco di volte, ne parlo spesso con i miei coetanei – noi siamo figli di una generazione particolare, perché siamo figli di quella precedente di operai che ci ha spinto tantissimo a fare degli studi diversi, benevolmente, incoraggiandoci a fare dei lavori che io definisco “da colletto bianco”, proprio per evitare la vita massacrante che hanno fatto loro.

Sai, la correlazione tra la mia passione per la scrittura e quello che poteva prospettarsi per me nel futuro era una buona combinazione. Lo dico sempre, bisogna ascoltare le proprie vocazioni: innanzitutto capire qual è la propria vocazione e lavorare su quello. Ed è per quello che comunque ho abbandonato il mondo del giornalismo, il mio percorso iniziato in quel periodo, per dedicarmi a un’altra passione, quella della pasticceria, che però era una passione manuale: non era una cosa che aveva a che fare realmente coi miei sentimenti, col mio stato d’animo, col mio retaggio culturale e tutto, almeno, non totalmente. È chiaro che la pasticceria mi prende in maniera emotiva, ma non a quel punto, non come la scrittura: è  un lavoro pratico, artigianale, al di fuori dalla presa emotiva.

Ho dovuto fare un grande lavoro su me stessa e mi sono detta “vai! Mi lancio, anche se ho fatto un percorso di studi differente, anche se sono presa con la neo-maternità perché mia figlia era piccolina”. All’inizio ho veramente fatto le preghiere, perché non avendo seguito corsi, robe varie, ho chiesto a Mazziotti, ai Dolci Peccati, a Procida di farmi entrare, così, per fare un piccolo stage, era giusto per vedere se la cosa potesse piacermi realmente, perché un conto è pensare e un conto è mettere in pratica. Quella è stata la mia prima scoperta del mondo della pasticceria. All’epoca studiavo a Roma, poi per un’estate intera sono tornata a Procida, e con l’aiuto di mia mamma che chiaramente teneva la bambina, mi sono dedicata a fare questo periodo di esperienza da Mazziotti. Lì ho scoperto che la questione mi piaceva, mi divertiva tanto, quindi ho detto questo è già un buon inizio, perché sai, lo senti a pelle quando una roba fa per te o meno.

Poi sono ritornata a Roma a settembre e sono entrata direttamente in un ristorante. Avevo l’impressione di essere già vecchia, perché vedevo i miei coetanei, quelli che erano nel mondo della cucina e della pasticceria, che arrivavano alla mia età, all’epoca 23-24 anni, uscivano da corsi blasonati, avevano già fatto mille esperienze e io mi sentivo indietro e nello stesso tempo avevo bisogno comunque di lavorare. Quindi ho detto vabbè, adesso inizio, entro, e mi formerò strada facendo. 

In effetti è quello che è stato, perché sono entrata in un ristorante che aveva una carta dessert veramente striminzita, avevo a che fare con pochissime preparazioni e quello è stato il mio periodo più importante di formazione perché è durato un paio d’anni. Lavoravo, pian piano aumentava la mia linea di pasticceria e nello stesso tempo studiavo, mi formavo, facevo dei piccoli corsi. In questo mestiere mi sono fatta da sola, nel senso che, ti ripeto, non ho fatto corsi importanti quali Alma in Italia o non ho fatto tirocini insieme a grandi pasticcieri: ho imparato tutto da sola, quindi prendevo i libroni di pasticceria, i grandi testi, i manuali, studiavo e il giorno dopo mettevo in pratica al ristorante.

Foto by @Monia Di Liello

Dopo due anni ho avuto un’altra offerta di lavoro in un gruppo che si chiama Angelina, sempre a Roma. Sono entrata in uno dei ristoranti del gruppo come pasticciera e poi, col tempo, sono diventata executive dei quattro ristoranti, li gestivo nella parte pasticceria. Successivamente, ho fatto dei corsi più importanti con maestri pasticcieri come Biasetto o altri. Poi sono entrata in un altro ristorante stellato, il Metamorfosi con Roy Caceres, dove ho fatto uno stage di qualche mese e poi ho continuato la mia esperienza lì da Angelina come aiutante chef executive della catena.

Da Angelina ci sono stata più o meno 4-5 anni e poi è arrivata la proposta da Parigi: sono entrata nel gruppo Big Mamma come chef pasticciera della Felicità (quello lì nel tredicesimo*) e poi lì mi sono fatta un pochettino strada: dopo un anno e mezzo sono diventata chef del laboratorio di Mamma 5, sempre di Big Mamma e adesso, praticamente da un mese, sono chef executive di tutta la Francia, quindi ho tutto il perimetro Francia su tutti i ristoranti Big Mamma.

C: Come percorso è veramente molto affascinante, perché fai una riconversione con grande coraggio e rinuncia comunque a una cosa che per te è importante, poi quando ci sono in gioco delle emozioni forti, come quelle legate per te alla scrittura (se ti prende, ti incoraggio a coltivarla con tutte le tue forze quando hai spazi, tempi) può essere ancora più difficile…                                   

M: Infatti, guarda, ho diviso perfettamente le cose, perché io in realtà ho 2 account instagram, è l’unica cosa che condivido, perché poi è vero che tutto quello che scrivo non lo condivido in rete o con altre persone, è roba mia e la tengo per me. L’unica cosa che condivido è sull’altro mio account – vedi, ho tenuto separate le due cose come se si trattasse di sacro e profano – ho un altro account instagram dove pubblico alcune delle poesie che scrivo per esempio. Però dovevano essere cose separate, la parte di Monia che si esprime attraverso la pasticceria, che fa questo lavoro e si diverte e l’altra più introspettiva che ha bisogno di esprimersi in un altro modo, con un altro codice linguistico e con altri argomenti e altri contenuti. La pasticceria alla fine è emozionante, sì, comunica qualcosa – le mie origini, le tradizioni della mia isola, faccio tanti dolci con i limoni, eccetera – però non hai veramente modo di esprimere la parte interiore di te, i tuoi sentimenti eccetera, con i dolci.

C: Perché il dolce piuttosto che il salato? Quale può essere secondo te la forza comunicativa del dolce?

M: In realtà io faccio facilmente la sostituzione dei tre pasti giornalieri con tre dolci, piuttosto che con cose salate, quindi stai parlando con una vera appassionata. In genere i pasticcieri li fanno i dolci ma non li mangiano, io invece li faccio, li mangio, li rimangio anche il giorno dopo, sono una golosa, parti da questo presupposto.

Però, a parte questo, perché il dolce? In Francia è diverso, culturalmente diverso da noi, io ho notato che per loro il dolce non è sinonimo soltanto di festa di domenica, sai, di compleanno eccetera: per loro il dolce entra veramente nella quotidianità. Qui, dove compri il pane, compri anche il dessert. Adesso con il consumismo, la globalizzazione e tutto quello che c’è dietro, anche i francesi comprano le merendine, però una famiglia di ceto medio la colazione la compra alla boulangerie, non la compra al supermercato. Questa è una cosa che per esempio a me fa tanto male perché anche a Procida, a parte il fatto di uscire e fare la colazione al bar, o farla o prepararla, però magari nella nostra quotidianità ci affidiamo al biscottino Mulino Bianco piuttosto che andare a comprare il biscottino prodotto o dal bar Roma o dal Cavaliere.

Per me è importante legare la pasticceria – è vero che per noi fa festa, fa compleanno, fa anniversario, fa estate e cena e braciata –  alla vita quotidiana e in realtà è una cosa che viviamo ogni giorno: fai colazione, mangi il biscottino, dopo cena ti mangi il pezzetto di cioccolata… Io parlo di Procida, perché Procida è la realtà che amo, ma in Italia in generale mi piacerebbe che si vivesse un contatto con la pasticceria veramente più intimo e non soltanto legato alle ricorrenze. Sprecare denaro per comprare Kinder delice (anche se le mangio anch’io, eh [ride], non è che voglio fare la schizzinosa, però perché ce le ho a portata di mano, ma cerco comunque di evitare).       

C: Quali invece potrebbero essere i limiti del dolce se gliene trovi?

M: Ripeto, stai parlando con una che non conosce limiti purtroppo, in termini di pasticceria [ride].

C: Pure senza limiti, può venire comunque fuori una risposta interessante [rido]

M: Sono io che la vivo così… Magari non è che mi mangio un bignè solo, me ne mangio cinque, quindi non ho limiti nel consumo della pasticceria [ride]. Il limite della pasticceria è che magari può essere legata a uno stile di vita non propriamente sano, quindi molti, in quest’ultimo decennio, si sono avvicinati a pasticcerie proteiche fatte con chissà quali miscugli. Alla fine io penso che una pasticceria non troppo zuccherosa è l’equilibrio perfetto tra regime alimentare salutare e golosità. Magari si possono utilizzare farine integrali non troppo lavorate, zuccheri non raffinati, riprendere a fare le marmellate… A Procida ne facciamo tante di marmellate, ci sono tante famiglie che fanno le marmellate con tutta la frutta che c’è nei giardini.

Foto by @Monia Di Liello

In generale, però, noi nuove generazioni abbiamo perso un po’ l’abitudine di farci la marmellata, ecco,  riprendere con questo non fa male. Anche le fette biscottate possiamo farle in casa, non ci vuole tanto, è una cosa facile. L’industria dolciaria non fa altro che modificare perché ha un limite – che è quello della conservazione – lo sappiamo. Anche se l’unico messaggio pubblicitario che ci danno ogni volta è che non ci sono conservanti, eccetera… Magari non ci sono nella ricetta, ma ogni ingrediente utilizzato ha già dei conservanti: loro non sono obbligati a specificarlo sulle etichette, però alla fine è comunque un miscuglio di conservanti.             

C: In una intervista hai detto di non amare la pasticceria “di plastica” e di prediligere un tipo di pasticceria con ingredienti di grande qualità e in qualche modo più autentica: secondo te quanto l’essere procidana ha influenzato la tua visione della pasticceria? 

M: Tantissimo, infatti, vedi è un discorso che si collega a quello che dicevo prima: quello che mi sta piacendo molto del progetto Big Mamma adesso è il fatto di non utilizzare nulla di già fatto. Tutte le cose (qualsiasi cosa) che escono da quei laboratori sono prodotti fatti da noi, ti faccio l’esempio: in genere le creme si aromatizzano con delle paste (paste al limone, paste di arancio o pasta vaniglia, ad esempio). In Italia abbiamo in molti l’abitudine di utilizzare queste paste, che sono confezionate e ci arrivano dai produttori, aziende dolciarie che fanno i semilavorati per la pasticceria. Anche se può sembrare niente perché è un aroma che magari su 40 chili di impasto ne metti 50 grammi: questa cosa io l’ho eliminata e la pasta di limoni, che per me è uno degli ingredienti sacri, la preparo sempre nel laboratorio, adesso la produco io. Quindi, sai, è prendere ogni elemento della ricetta e dire me ne occupo io dalla A alla Z: per la vaniglia non compro la pasta alla vaniglia, non compro aromi alla vaniglia, compro la vaniglia in bacche e la lavoro io… Faccio le infusioni, la secco, la riduco in polvere, qualsiasi uso, però la utilizzo tutta. È più costoso? Sì, è più costoso,  sicuramente perché un conto è comprare un barattolino che costa sette euro dove c’è della pasta aromatizzata all’arancia o ai limoni e un conto è prendere 40 chili di limoni e farci uscire un barattolino: quindi immagina il costo. Però questo per me è il motore principale del mio lavoro e dico, è una frase fatta: se io dovessi far venire a mangiare mia figlia nel ristorante dove lavoro, dove c’è la produzione, vorrei che mangiasse sempre in una maniera corretta, con quello che offre la terra, lavorata nella maniera giusta… 

“Le nuvole di Deva” – Foto by @Monia Di Liello

Voglio trattare così qualsiasi cliente, come se fosse mia figlia a mangiare in quel momento, con il rispetto, perché quel cliente ogni volta mi dà la fiducia e io devo ripagare quella fiducia, è un compito, lo prendo seriamente, non posso tradirlo. È per quello che arriccio il naso quando vedo i coloranti – perché nella mia pasticceria non si usano coloranti, l’ho fatto per un periodo quando mi hanno chiesto le torte di compleanno – a meno che non siano coloranti naturali, non ne faccio più utilizzo e neanche di semilavorati: qualsiasi impasto è fatto da me, dalla più piccola frolla, da me o dall’équipe, in genere, ma sempre fatto in casa… Dalla frolla all’impasto babà, dal lievito fresco, veramente tutto, tutto quello che ti viene in mente, non ci sono liofilizzati nelle mie preparazioni.                             

C: Il fatto di essere italiana (nonché procidana, con l’attenzione mediatica che c’è stata su Procida in questo ultimo anno) crea, secondo te, aspettative tra le persone addette ai lavori francesi in termini di creazione e valorizzazione della cucina made in Italy? Senti la responsabilità della tradizione della cucina italiana?

M: Questo sempre, perché è quello che l’azienda ci chiede, quindi siamo ambasciatori della cucina italiana in Francia: il rispetto della tradizione è messo al primo posto. Spesso e volentieri – non so se ti è capitato, visto che vivi anche tu all’estero – capita di trovare un ristorante con insegna di cucina italiana che però all’interno della lasagna per esempio ci mettono il pollo… boh! 

C: Sì a me fa strano pure la pizza margherita con l’origano…  

M: Esatto! Oppure trovare la Cesar Salad tra le ricette italiane… Noi facciamo solo cose italiane e basta.

Per il legame con Procida isola della cultura, l’unica cosa che posso dirti è che in Francia rispetto a qualche anno fa si sono fatti molti servizi sull’isola, molti giornali hanno parlato di Procida, quindi adesso dici “Procida” e si ricordano, c’è qualcosa che gli frulla per la testa, nei primi anni in cui ero qui questo non succedeva.. 

Ritornando alla cucina italiana, lo sai anche tu vivendo all’estero, è molto apprezzata soprattutto sul territorio francese, quindi per me è importante semplicemente rispettarla. Nel mio contesto, ogni volta che ho a che fare o discuto con altri francesi magari sul pistacchio o il sapore del pistacchio – loro mangiano delle paste qui che sono un misto di mandorla, con aroma di mandorla colorate di verde e dicono che quello è pistacchio – io li sfido sempre a provare il gusto del pistacchio quello vero e capire che realmente stiamo da un’altra parte: quello che mangiano loro è mandorla e il pistacchio ha un altro sapore. Quindi per me quello è farsi forte delle origini: è semplicemente instaurare questa piccola guerra del raccontare “guardate, non è così, vi faccio vedere io com’è”.  

C: Cosa ti piace della pasticceria francese e cosa ti sta insegnando il modo di lavorare qui in Francia?

M: Della pasticceria francese mi piace il fatto che non si stancano mai di sviluppare nuove tecniche. C’è una grande differenza tra la pasticceria italiana e la pasticceria francese, questo è innegabile. Mentre sulla cucina, in Italia, abbiamo delle basi solide, nella pasticceria siamo molto fermi ai sapori che avevamo già 50 anni fa e nelle pasticcerie troviamo sempre la stessa linea produttiva. Chiudo gli occhi e penso che nella pasticceria italiana ci sono il babà, la sfogliatella, la frolla, la tartelletta con la fragola sopra, eccetera… Per me questo è superato: vorrei vedere nelle pasticcerie italiane soprattutto sperimentazione, a parte il fatto di scoprire nuove tecniche ed applicarle nel quotidiano, rispettando sempre e comunque la tradizione e i sapori, quelli che si apprezzano. I francesi questo lo hanno già capito.

Poi i francesi hanno capito che non bisogna mai mangiare una fragola a settembre o novembre, hanno capito che c’è il rispetto delle stagioni… Invece, in Italia, mi viene da grattarmi un po’ il nasino quando vedo che in pasticceria sulla tartelletta c’è la fragolina e magari è gennaio: per me questo è inammissibile perché l’Italia è la terra dei sapori, noi abbiamo una frutta buonissima, per ogni stagione abbiamo la frutta migliore, i prodotti migliori e per me è impensabile dover mangiare una fragola che viene dalla Turchia, per dire un paese a caso, o dalla Spagna, di una coltivazione sicuramente modificata, cresciuta nelle serre, quando posso lavorare le mele annurche o quando posso lavorare qualcos’altro. Credo che la Francia su questo aspetto sia un pochettino più avanti: sono più avanti, quelli nel settore nel proporre, e c’è un po’ più di sensibilità da parte della clientela. Qui questo genere di modifiche è stato accolto con felicità e molta apertura mentale: ho paura, per esempio, che se io domani aprissi una pasticceria in Italia, a Roma, in un vicoletto e se facessi un inverno intero una produzione con magari mele, pere, probabilmente il pasticciere vicino che ha le tartellette con le fragoline a gennaio avrebbe più clienti di me. Forse siamo troppo legati magari ai gusti che avevamo nell’infanzia che ci ricordano, non so, la tradizione e quello che abbiamo sempre mangiato in passato. Penso che tu condividi questa visione….                             

C: Sì, completamente! La filosofia è quella: il rispetto della ciclicità, della stagionalità. Poi io ho avuto i genitori che hanno sempre coltivato l’orto, quindi, che ne so, ora è il periodo in cui mia mamma sta facendo la marmellata di arance o di limoni, quest’estate sarà di fichi… Io ad esempio dico sempre a mia madre “non mangiare il pomodoro a gennaio, mangialo da luglio in poi, che te lo coltivi tu e sai che pomodoro è”, come pure l’insalata che lei ne mangia un sacco, perché ormai pure nella zona dove siamo noi importiamo comunque dalla terraferma, tante cose sui terreni di provenienza non le sappiamo…

M: Che poi è una cosa che si può estendere a vari prodotti… C’è una stagionalità anche per il pesce, per la carne…. Tutto ha una  stagionalità, quindi bisognerebbe semplicemente rispettarla.

C: Sì, e a Procida può essere molto forte questa cosa, perché noi lo vediamo… Vediamo quando ti mangi i pomodori, le melanzane e per il pesce, vediamo i periodi in cui ci stanno più alici o più calamari… Alla fine abbiamo un rapporto molto stretto con la ciclicità e prendere coscienza su questa cosa sarebbe fondamentale…

M: Il problema è la domanda, ritornando alla pasticceria ci vorrebbe che i clienti dicessero “non voglio la tartelletta alla fragola a gennaio” e automaticamente si aggiusterebbe tutta la produzione. 

C: Se tu dovessi dare un consiglio di miglioramento in Italia, quindi sarebbe su una maggiore presa di coscienza sulla stagionalità?  

M: Sì, esatto.

C: Qual è il tuo dolce francese preferito?

M: Forse la tarte tatin… È diventata il mio dolce francese preferito nell’età adulta, qualche anno fa ti avrei detto il Paris-Brest o quelli un po’ più con creme. Adesso la tarte tatin, penso che, fatta bene, con la frutta di stagione matura al punto giusto, una pasta sfoglia o frolla ben eseguite, un po’ di crema acida sopra,  è uno dei dolci che mi dà più felicità adesso in Francia.     

Foto by @Monia Di Liello

C: Se dovessi immaginare un dolce che fosse la sintesi tra Procida e Parigi, come sarebbe questa creazione? Quali ingredienti potrebbe avere?

M: La tarte citron è il dolce per eccellenza di questi anni. I francesi amano la torta al limone e veramente si potrebbe fare una versione molto procidana di questo dolce, questo è il connubio perfetto, perché loro la amano e anche noi amiamo i dolci al limone, a Procida – abbiamo degli ottimi limoni chiaramente e un sacco di persone hanno anche le galline nell’orto, quindi si può fare un’ottima meringa italiana sopra.

C: Invece alle persone giovani che vogliono intraprendere la tua professione cosa consiglieresti?

M: Ne parlo sempre con i ragazzi che prendiamo e che devo un pochettino allevare per tutto il percorso: puntare sempre al miglioramento. A livello tecnico la crescita deve essere costante, dobbiamo avere fame continua di miglioramento. Però nello stesso tempo dobbiamo curare anche la parte manageriale, l’aspetto economico e tanti altri aspetti…. Oggi come oggi fare il pasticciere non vuol dire soltanto fare una ricetta buona e proporla: bisogna avere una squadra contenta. Io che sto intraprendendo questo lavoro, mi sto immaginando come chef un domani: se devo curare tutti gli aspetti del mio mestiere devo sapere di essere un ottimo pasticciere con un’ottima tecnica eccetera, però devo anche curare la mia équipe… Curare la mia équipe significa valorizzarla, mettere avanti sempre le persone che lavorano con te, più che per te e rispettarle: il clima sociale è importantissimo, rispettare le ore di lavoro…. Sono cose che dobbiamo prima conoscere: noi, prima di essere manager di un contesto che sia una pasticceria, che sia una pizzeria, che sia un ristorante o una grande azienda, dobbiamo saper mettere le mani in una determinata situazione. Quindi, la persona che inizia a fare questo mestiere adesso, deve veramente sviluppare competenze non solamente nell’aspetto tecnico della pasticceria ma deve curare anche l’aspetto economico perché un dolce lo devi poter vendere al prezzo giusto, devi avere a che fare con fornitori differenti. Grande attenzione, quindi, all’aspetto della parte economica, grande attenzione all’aspetto soprattutto della parte manageriale perché possiamo anche essere ottimi pasticcieri, ma dobbiamo sempre ricordarci che se non abbiamo un’ottima squadra contenta a fianco non siamo praticamente nessuno, zero, non valiamo niente, possiamo fare soltanto dei dolcetti per la nostra famiglia la domenica.

Ti assicuro che al giorno d’oggi di pasticcieri (come anche di cuochi) che hanno una base tecnica importante ce ne sono migliaia… Quello che ci distingue oggi sono veramente la cura e le esperienze fatte con quelli che hanno questa capacità di pensiero e fanno evolvere le competenze in una maniera tentacolare, non soltanto a livello tecnico ma anche manageriale con tutto quello che c’è intorno.                       

C: Delle competenze trasversali alla fine…

M: Esatto! È quello che ti fa diventare il buon gestore di domani: apro una pasticceria pensando anche al futuro, a quello che diventerà quella pasticceria tra 5 anni e se già fai questo ragionamento, già stai pensando ai soldi che guadagnerai, a quelli che spenderai e se non fai questi calcoli non ti puoi permettere neanche di aprire. 

C: A cosa ti fa pensare l’espressione Amma cucenà?

M: Mi fa pensare alla condivisione. Pensandoci, chissà quante volte ce lo siamo detti “Oh amma cucenà”…

C: Sì, fa un po’ comunità…

M: Mi vengono in mente momenti che ho condiviso con mia sorella a Roma, c’è stato un lungo periodo in cui abbiamo vissuto insieme e ce lo dicevamo spesso – anche perché siamo delle grandi mangione – e io ero presa dal lavoro e lei dallo studio, ma arrivava sempre un momento in cui ci guardavamo e dicevamo “oh, amma cucenà?” era sempre un momento carino… Quindi mi fa pensare molto a questo.   

C: Per finire, puoi dirmi una canzone che associ ai momenti di creazione dolciaria? La metto sempre alla fine dell’intervista… Mi dicono di tutto [rido] quindi qualsiasi cosa ti viene in mente… 

M: Adesso faccio sempre scegliere all’équipe che musica mettere. Però, nei periodi in cui ero da sola o quando le équipe erano piccole e sceglievo io la musica, mi ricordo che mettevo Pino Daniele… Poi ascolto un sacco di musica… Spazio da Pino Daniele a Future Island, che non è tantissimo conosciuto e poi Elvis Presley, Queen… Difficile scegliere una canzone…

C: La prima che ti viene in mente?

M: Ne scelgo una di Pino Daniele che mi piace tanto: Lazzari felici.    

tredicesimo*: Si riferisce al tredicesimo arrondissement di Parigi. Gli arrondissement municipali sono una divisione amministrativa che divide in 20 circondari (arrondissement per l’appunto) il territorio del comune/dipartimento di Parigi.

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