insalatina di razza

Esperienza, esempio, condivisione, amicizia: l’intervista di Pio Lauro del Gazebo, cuoc@ nostrom@ di maggio

Pio Lauro, affettuosamente chiamato dai suoi ragazzi “u Pione” è un pilastro della ristorazione procidana degli ultimi 30 anni. Ho avuto il piacere e l’onore di scambiare quattro chiacchiere con lui per cuoc@ nostrom@ del mese di maggio.

Cucenellista: Mi puoi parlare un po’ della storia del Gazebo? Da quanto tempo esiste, com’è nato, come si è evoluto nel tempo?

Pio: Allora, il Gazebo esiste dal ‘93. Com’è nato? Quasi per caso, nel senso che io ero ancora molto giovane, avevo 22 quando ho preso il locale. All’inizio dovevo associarmi con un amico, poi questo amico all’ultimo ha desistito e al suo posto è subentrato mio cugino. Siamo partiti facendo questa formula “paninoteca” (non “pub”) insieme alla ristorazione ed è un abbinamento che ha sempre funzionato bene. Poi ho cambiato socio, è venuto Bruno, il grande Bruno! Soprattutto col suo arrivo, ci siamo indirizzati più verso la ristorazione, nel senso che abbiamo sempre continuato a fare i panini, facendoli anche evolvere nel tempo, migliorando sempre di più la qualità, utilizzando prodotti differenti di prima scelta. Non l’ho mai voluto chiamare “pub”, perché il pub per me è una cosa diversa. La paninoteca fatta con materie scelte, con poche salse… Per farti capire, la porchetta viene solo da Ariccia, il prosciutto, anche per le Zingare, è solo di Parma, il pane che proponiamo non è solo quello morbido, tipo quello per l’hamburger, ma abbiamo 4 tipi di pane. Quindi c’è tutta una serie di condizioni per cui io insisto nel non volerlo chiamare pub ma paninoteca. Avendo poi la cultura del vino, ho sempre cercato di abbinare questo aspetto sia alla ristorazione che alla paninoteca, avvalendomi anche delle esperienze che ho fatto fuori. Ovviamente, quando abbiamo aperto 30 anni fa, eravamo penso una ventina di ristoranti, adesso, se non sbaglio, siamo intorno ai 40-45, quindi la concorrenza non fa mai male, è sempre una cosa buona rispetto al monopolio. Però, tieni presente che le persone d’inverno sono sempre le stesse, quindi il pubblico si divide, insomma bisogna organizzarsi bene. Poi nel corso degli anni ci siamo anche reinventati con le consegne a domicilio, che d’inverno ti aiutano tantissimo e anche d’estate, devo dire la verità, abbiamo un buon riscontro.

Il Gazebo ha solo un problema in realtà: il posto. Il posto che io chiamo “la striscia di Gaza”. Dice un mio caro fornitore “tu non hai la vista mare, ma hai la vista muro!”, perché di fronte abbiamo il muro del cantiere. Ed è una zona, diciamo, abbastanza dimenticata, quindi la gente che viene da noi, nonostante la cura per il locale e per tutto il resto, deve venire proprio per mangiare, quindi deve venire apposta. Mentre altri, più fortunati, hanno un posto dove tu ci passi e ti ci siedi, lo conosci, non lo conosci, da noi devi venire apposta per mangiare. E questo, voglio dire, è anche un vanto, perché nessuno entra per caso nel Gazebo, ci viene appositamente.

Poi Bruno se n’è andato – il nostro rapporto è non di amicizia, ma io direi sempre fraterno – e dopo di lui è arrivata questa ragazza, Lidia, che viene dal mondo del bar, con cui ho trovato subito un feeling, sia di amicizia che lavorativo e stiamo andando avanti. Abbiamo un sacco di progetti, tra cui anche quello di spostarci e trovare un altro posto, ma questo poi lo vediamo crescendo, insomma.

Due momenti immortalati dalla squadra del Gazebo: a sinistra, Pio in cucina alle prese con un esemplare della fauna ittica procidana e a destra Pio con la socia Lidia

Poi c’è Procida capitale della cultura che potrebbe essere sicuramente un trampolino di lancio non solo per l’anno prossimo, ma negli anni a venire se, ovviamente, Procida tutta, a 360°, si comporterà in un determinato modo e quindi pure noi, come piccola azienda, stiamo pensando di evolverci, di allargarci, di spostarci, di fare altre cose insomma, ma questo è tutto un discorso che stiamo affrontando adesso e di cui per ora non vi posso raccontare i particolari…

C: Vabbè, si rimane con la suspense, è buono!

 P: [ride] Alla prossima puntata.

C: Tu hai fatto un po’ scuola nella cucina procidana: io ho intervistato varie persone, Vittorio Cerase, Bruno pure… Più di una persona che ho già intervistato ha citato il Gazebo come posto in cui ha fatto esperienza e si è ispirata anche per alcuni piatti. Quali sono, secondo te, gli ingredienti di questo affetto che le persone che hanno lavorato con te continuano a manifestare e sottolineare? Cosa portano con loro dopo un’esperienza al Gazebo?

P: La verità è sempre la stessa: io non ho dei dipendenti, ho degli amici. C’è gente che rimane a lavorare con me per 10, 15 anni se ne va solo se cambia nazione o per un nuovo lavoro, altrimenti non se ne va. Rimangono tutti quanti affezionatissimi, quando tornano a Procida vengono a salutarmi. Non li ho mai chiamati dipendenti e neanche collaboratori: li ho sempre chiamati “i miei ragazzi”, perché veramente riesco a instaurare questo rapporto con tutti. Ci vuole una cosa che si chiama umiltà: io sono il primo a entrare in cucina, ho 52 anni, faccio questo lavoro da 40 e ne sono 30 che ho il Gazebo e sono sempre quello che prende la scopa per spazzare a terra, il mocio quando i ragazzi sono stanchi, non è che comando, sono l’ultimo che si va a sedere la sera. Allora il rispetto tu te lo devi conquistare, non puoi pretendere che i ragazzi ti diano il rispetto perché tu sei “o padrone”. Per me è una cosa che non è mai esistita.

Lidia che è in società, prima era dipendente. C’è un altro ragazzo che sta con noi da tanto tempo e stiamo cercando di farlo entrare in questa situazione.

Quindi, per me, questo forse è il segreto: sono il primo a entrare in cucina, il primo a prendere lo straccio per pulire e l’ultimo a posarlo, ci sta poco da fare. Quindi penso che quando escono dal Gazebo, la cosa che si portano dentro i ragazzi è soprattutto un bagaglio di umanità e umiltà, poi a cucinare si impara, non si impara… Molti dicono che sono stato il precursore di un certo tipo di cucina, o che ho inserito un sacco di ragazzi… I ragazzi si inseriscono da soli, sono bravi da soli, insomma, hanno fatto esperienze fuori. Ovviamente sono anche quello che ha un’età più avanzata rispetto a loro: tieni presente che ragazzi bravissimi che adesso dirigono cucine o hanno ristoranti in proprio, come Carlo Coscione, Cicò, Vincenzo, Gianluca Catastone (Serpe), sono tutti ragazzi che hanno cominciato con me e ora hanno intrapreso una propria strada e con tutti ho un rapporto incredibile, questa è la situazione.

Una cosa che dico sempre è che “i ragazzi non hanno bisogno di prediche ma di esempi”, questa frase non è mia ma di Sandro Pertini, ed è la verità.

Tiramisù del Gazebm – Foto by Sara Coppola

C: Secondo te, nel tempo, com’è cambiata la ristorazione a Procida? Come sono cambiati, se sono cambiati, i gusti delle persone?

P: Secondo me la ristorazione a Procida è migliorata rispetto a prima, innanzitutto perché i ragazzi hanno fatto bene o male tutti esperienza fuori, quindi ognuno porta qualcosa in questo contenitore che è Procida.

Poi, una parte delle persone mangia male, sicuramente, con surgelati nelle grandi città, prodotti pronti, però poi quando vengono su una piccola isola come la nostra e  i ristoratori sono bravi a fargli capire che noi non abbiamo il pesce fresco, ma  abbiamo il pesce vivo, perché se vai alla paranza, noi qui abbiamo la cultura del pesce vivo.- io sono andato adesso e ho 10 chili di mazzancolle che ancora si muovono, le cicarelle che saltano da tutte le parti – Se entri in una pescheria dove c’è pesce fresco a Milano o a Napoli, senti odore di pesce. Se vai a Procida, non senti odore di pesce, perché il pesce vivo non ha odori, capito qual’è la differenza? E siamo noi che negli anni abbiamo fatto capire alla clientela queste cose. Per me, le paranze dovrebbero farle veramente patrimonio dell’Unesco…

C: Sono d’accordo…

P: Tanti anni fa, su Dove, uscì un articolo in cui si diceva che a Procida mangiavamo il pesce più fresco d’Italia. Per esempio, noi stasera lo mangiamo e domani lo abbiamo digerito, ed è quando arriva sui banchi del mercato a Napoli o sulla terraferma: quindi quando noi lo abbiamo digerito mò vu stit’accattanno. Non c’è concorrenza su questa cosa qua… A parte che adesso un sacco di ragazzi hanno intrapreso un’attività di pesca diciamo professionale…Mentre prima la pesca era stata un po’ abbandonata perché c’era chi andava a navigare, chi si dedicava ad altro… Adesso, con le nuove tecnologie, con i nuovi modi, con il parco marino che avrà sicuramente ripopolato un po’ il mare, molti ragazzi hanno ripreso a dedicarsi alla pesca. Quindi anche per noi ristoratori, rifornirsi sta diventando più semplice e di conseguenza anche il congelato va scemando sui tavoli dei ristoranti. Quindi per me la ristorazione qui a Procida è migliorata molto, sia a livello qualitativo ma anche per tutti gli aspetti che riguardano la cultura, la fantasia , la preparazione, le tecniche di cottura.Sono state importanti le esperienze fuori dei ragazzi, ma anche l’avvento di internet: tanti ragazzi ad esempio dicono “aspè, famme verè ‘sta cottura sotto vuoto comme se fà” oppure “questa tecnica per questo piatto come la possiamo adattare al nostro locale”.

Calamaro ripieno del Gazebo – Foto by Sara Coppola

C: L’espressione procidana che maggiormente usi in cucina?

P: Muovete, fa amprèssa!”*

C: Un’espressione procidana alla quale sei più affezionata o la prima che ti viene in mente?

P: “Po’ rimane verimme”**

C: Il nome di un ingrediente che conosci in procidano ma fai fatica a ritrovare in italiano?

P: I picchiacchieddi, è un’erba che cresce a Solchiaro ma in italiano non tengo proprio idea. [ride]

C: La portulaca! L’espressione Amma cucenà a cosa ti fa pensare?

P: Alla festa, sempre e comunque. Perché cucinare, nello specifico amma cucenà, è cucinare insieme, è condivisione, è gioia, è allegria, è preparare qualcosa per un amico, per la famiglia, è sempre un momento di piacere.

C: C’è una figura tipo anche di quando eri piccolo che secondo te ti ha influenzato nella scelta di dedicarti alla cucina?

P: Allora, mia madre girava sempre per ospedali, per accompagnare mio fratello e quindi io stavo sempre vicino a nonna che era anziana e cucinava per mio padre, per me e per mio fratello grande. Quindi io guardavo questa donna anziana che cucinava benissimo, perciò mi mettevo vicino a lei. Poi mio padre lavorava sulla Caremar e la settimana che stava a terra faceva il pescatore. Ovviamente, per portare avanti tutta la famiglia, il pesce buono lo vendeva e a casa portava il pesce povero: erano perchie, lucerne, pesce piccolo. E mia madre è stata una grande, perché riusciva a fare queste zuppe di pesce con questo pesce che non si sarebbe mangiato nessuno, tipo il gronchio, pesce veramente poverissimo e quindi da lei io ho appreso la cultura di cucinare i pesci. La nonna riusciva a fare la pizza di farina rossa, la pizza di scarole, cose già pronte, così quando tornavamo da scuola ed eravamo come lupacchiotti (ci saremmo mangiati anche sedie e tavoli) trovavamo qualcosa. Penso che proprio là mi è scattata la molla. Vabbè che prima erano altri tempi, ma io a 14 anni (io come i miei colleghi) ci prendevamo un traghetto alle 7h15 di mattina, ci svegliavamo da soli alle 6h con la sveglia, tornavamo alle quattro del pomeriggio, proprio perché era una passione. L’Alberghiero era fatto anche in modo diverso: i primi due anni facevamo 32 ore di pratica a settimana, ti martellavano, abbiamo avuto grandi professori, insomma, ti devo dire la verità, tutta la vita mia è stata una bella esperienza, perché ho conosciuto tanta gente, il mondo della cucina è così vasto. Le esperienze più belle le ho fatte soprattutto per quanto riguarda il vino, io nel 90 sono stato il primo a prendere il diploma di sommelier, tutti e tre gli anni, penso che sono stato il primo o il secondo a Procida. Ero andato a lavorare tramite Giovanni Iovine da un amico a Roma, Arcangelo Dandini, che adesso è uno bravo, famoso a Roma, ha una locanda e tre punti vendita di cibo da strada e lì, la prima sera che uscimmo insieme, mi portò in questa enoteca e disse “cosa bevi?” e io “che ne saccio” [ride] mi ero bevuto sempre la Peroni grande… E lì mi fece bere il primo bicchiere di Barbaresco… Lui ci parlava con questo bicchiere e questa bottiglia… E mi dissi “ah, lo devo fare pure io!” quindi da là mi venne questa passione, che spero si sviluppi in qualche sogno che ho in questa capoccia [ride].   

C: Con l’arrivo della nuova stagione, c’è qualcosa di particolare che vuoi dire alle persone, per far scoprire il ristorante o per farle continuare a venire se lo conoscono già?

P: Per quelli che lo conoscono già, non c’è bisogno di dire niente, perché tornano e ritorneranno. Per quelli che non lo conoscono ancora, direi “non pensate alla vista muro, ma  pensate a quello che avete nel piatto. Per il resto, decidete dopo, se volete pagare o meno…” [ride]

C: Una canzone che associ alla cucina, che poi la metto sotto all’intervista… Una canzone che mettete spesso al ristorante, una specie di tormentone, insomma…

P: Ci sta una canzone napoletana che la faccio sentire sempre ai ragazzi che a volte mi vorrebbero picchiare… La versione di Renato Zero di Tu si’ na cosa grande. La dedico sempre ai ragazzi quando fanno più di quello che devono fare, tutti, indistintamente.

C: Quindi una canzone di ringraziamento diciamo..

P: Sì, sì [ride] 

Foto di copertina: Insalatina di razza, foto by Sara Coppola

Muovete, fa amprèssa!”*: sbrigati, fai presto.

“Po’ rimane verimme”**: Poi domani vediamo.

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